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giovedì 7 aprile 2011

Ricette 17


Crema Dell’antico Impero "tyropatinam"
Bollire tanto latte quanto ne contiene una pentola, con l’aggiunta di molto miele per addolcire.
Unire uova e lavorare molto lentamente a fuoco lento.
Quando l’insieme sarà cremoso, per renderlo ancora più vellutato, si filtri in un altro recipiente tramite un panno bianco e, lo si riporti ad ebollizione a fiamma moderata, per ridargli consistenza.
Servire la crema fredda spolverizzata con pepe pestato.

Pane della miseria
Nella tradizione alimentare mediterranea ed europea, un caso particolarmente interessante da seguire è quello del pane.
La storia insegna che in caso di penuria o carestia, quando dei prodotti vengono a ridursi, si mettono in opera strategie di sopravvivenza diverse tra loro, ma accomunate dalla regola generale della “sostituzione”, ossia di individuare qualcosa che si possa utilizzare al posto di qualcos’altro.
Nelle cronache è attestato che se mancava il frumento, il pane si faceva con gli altri
cereali, i legumi, o nelle regioni di montagna con le castagne, per passare poi alle ghiande e finire con radici ed erbe selvatiche.
Gregorio di Tours, riferendo vicende di fine VI secolo, afferma che quando una grande carestia oppresse le Gallie, molti facevano il pane con i semi dell’uva e con i fiori dei noccioli; altri con le radici di felci pressate, seccate e ridotte in polvere per essere mescolate con un po’ di farina.
In casi estremi si ricorreva alla terra, come testimoniano nel 843 gli Annali di St. Bertin, secondo i quali in molti luoghi gli uomini furono costretti a mangiare un po’ di farina mescolata alla terra ridotta in forma di pane.
La morfologia dell’alimento garantiva così continuità al sistema alimentare.
Il “pane della miseria” ricorre spesso nelle fonti medievali, perché mangiare erbe come le bestie, senza trattarle ne cuocerle era un segno animale.
Mentre sottrarre le ghiande ai porci, macinarle con altri ingredienti di fortuna e tentare di ridurre il tutto in pane era un gesto umano.

L’OLIVO DELLA GARFAGNANA
Si presume che già nei secoli III - II e I - AC. i romani nelle loro battaglie contro i Celti Apuani abbiano importato l’uso dell’olio nelle zone della Garfagnana
Si consigliava di conservare il più a lungo possibile le olive, in maniera da poter fare, sul momento, olio fresco da offrire nelle oliere ai convitati in ogni periodo dell’anno.
Si rendeva quindi necessario cogliere le olive quando erano ancora verdi sull’albero e riporle sott’olio.
In epoca imperiale le olive si servivano in tutte le cene, anche in quelle più importanti: come diceva Marziale, esse costituivano sia l’inizio che la fine del pasto, venivano cioè, sia portate come antipasti, sia offerte quando, finito di mangiare, ci si intratteneva a bere.
Solitamente erano conservate in salamoia, ben coperte dal liquido, fino al momento di usarle, poi si scolavano e si snocciolavano tritandole con vari aromi e miele.
Le olive bianche venivano anche marinate in aceto e, condite in questo modo, erano pronte all’uso.
Inoltre, con le olive più pregiate e più grosse, si facevano ottime conserve che duravano tutto l’anno e fornivano un nutriente ed economico companatico.
 Altre volte, più semplicemente, si mettevano le olive sotto sale con bacche di lentisco e con semi di finocchio selvatico.
1°  In epoca Romana con le olive verdi si facevano le colymbadas (letteralmente “le affiorate”), così dette perché galleggiavano in un liquido fatto di una parte di salamoia satura e due parti di aceto.
La preparazione consisteva nel praticare alle olive, dopo la salagione, due o tre incisioni con un pezzo di canna, e quindi tenerle immerse per tre giorni in aceto; poi le olive venivano scolate e sistemate con prezzemolo e ruta, in vasi da conserve che erano poi riempiti con salamoia e aceto facendo in modo che restassero ben coperte.
Dopo venti giorni erano pronte per essere portate in tavola.
 
Un altro tipo di conserva era l’epityrum che si faceva sempre con le olive migliori, di solito le orcite e le pausiane: era una salsa molto saporita che si otteneva da frutti colti quando cominciavano appena ad ingiallire, scartando quelli con qualche difetto. Dopo aver fatto asciugare le olive sulle stuoie per un giorno, si mettevano in un fiscolo nuovo, cioè in una di quelle ceste di fibra vegetale fatte a forma di tasca, con un foro superiore e uno inferiore, in cui si racchiudevano le olive frantumate per poi spremere l’olio; quindi si lasciavano una notte intera sotto la pressa.
Dopo di che venivano sminuzzate e condite con sale e aromi e, dopo aver messo l’impasto così ottenuto in un vaso lo ricopriva d’olio.
 
Vi erano poi le conserve di olive nere, che si potevano fare sia con le pausiane mature che con le orcite ed in alcuni casi anche con le olive della qualità Nevia: la preparazione consisteva nel tenerle per 30-40 giorni sotto sale, poi, una volta scosso via tutto il sale, metterle sotto sapa.
Olio Degli Antichi
All'apogeo della civiltà romana l'olivicoltura era una delle branche più sviluppate dell'agricoltura.
Per spremere le olive erano utilizzati dei contenitori di pietra, sui quali i frutti deposti venivano pestati con mazze, bastoni o appositi utensili.
I "negotiatores oleari", riuniti in collegi di importatori, erano i soli commercianti abilitati a trattare l'"oro verde"
Le contrattazioni delle partite avvenivano nella "arca olearia", una vera e propria borsa specializzata.
Gli autori latini che trattano l'agricoltura sono prodighi di consigli su come produrre l'olio. Nulla è lascito al caso: dalle varietà più adatte alla potatura, ai sistemi di raccolta, fino alle tecniche di frangitura. Plinio e Columella, per citare solo alcune fonti, censiscono dieci varietà diverse di olivi, e l'olio viene classificato in cinque categorie:
-"Ex albis ulivis" l'olio più pregiato ottenuto da olive verde chiaro;
-"Viride" generato da frutti che stanno annerendosi;
-"Maturum" frutto di olive mature;
-"Caducum" prodotto da frutti raccolti per terra;
-"Cibarium" spremuto da olive bacate e destinato agli schiavi.
Erano particolarmente rinomati l’olio verde di Venafro, come attestano Marrone, Plinio, Orazio e Stradone, e quello della Liburnia in Istria; pessimo era considerato l’olio africano che veniva usato esclusivamente per l’illuminazione.
Non mancavano allora, come oggi, le contraffazioni, se dobbiamo credere ad una ricetta di Apicio che insegnava a contraffare l’olio della Liburnia utilizzando un prodotto spagnolo.
Essendo poco raffinato e dato che non si adottavano trattamenti particolari atti a conservarlo, l’olio diveniva rancido molto rapidamente; l’unica soluzione era dunque salarlo.
L'olio di qualità era costoso: Plinio ricorda che il cavolo non era un piatto economico perché doveva essere condito con olio.
Virgilio, dal canto suo, suggerendo una ricetta di agliata, consigliava l'uso di tanto aglio, tanto aceto, ma solo "poche gocce di olio".
Questo liquido assunse un ruolo fondamentale per la tavola e la cultura dell'epoca imperiale, tanto che
Giulio Cesare costrinse le province vicine dell'impero a consegnare alla città molti litri di olio come tributo annuale.
frutto dell'ulivo godeva di una tale considerazione che, in una civiltà basata su una rigida struttura militare e sul reclutamento obbligatorio, i cittadini che piantavano almeno un iugero (circa 2.500 metri quadri) di ulivi venivano dispensati dalla leva.
I primi sintomi della crisi di tanto splendore oleario si avvertirono nel III sec.
Il progressivo abbandono delle campagne alla cura degli schiavi, e le continue elargizioni degli imperatori, svuotarono le riserve di olio italico; la produzione nella nostra penisola diminuì e Roma anche per il suo consumo interno inizio ad attingere alle sue province spagnole e africane.
La caduta dell'impero romano e le invasioni barbariche interruppero i contatti commerciali, facendo decadere l'olio da pianta sacra a specie rustica poco significativa.

Olio Di Menta
Prendete una manciata di foglie di menta e lasciatele per un mese in infusione in mezzo litro di olio d’oliva.
Riponete il contenitore in luogo asciutto e fresco, poi trascorso questo tempo, filtrate ed imbottigliate. L’olio di menta è ottimo sulle insalate di pesce.

Succo di olivello
Scegliere frutti maturi, lavarli e farli sgocciolare.
Frullarli e diluirli in acqua nella proporzione di 1:5; dolcificare con miele o zucchero. Usare per bevande, macedonie, muesli e frullati.Sciroppo di olivello
Filtrare 1 l di succo di olivello e unirvi 1 l di acqua; aggiungere 1 kg di zucchero e cuocere finché il liquido non è sciropposo.
Usare per aromatizzare yogurt o altre bevande.
Biscottini di olivello
Montare a neve 5 albumi. Unire 300 g di zucchero a velo, 3 cucchiai di sciroppo di olivello, 400 g di cocco grattugiato, un po’ di essenza di mandorle amare.
Distribuire il composto a cucchiaini sulla placca rivestita di carta da forno.
Cuocere in forno fino a doratura completa.
(Succo e sciroppo sono in vendita in erboristeria)

L’OLIVO IN GARFAGNANA

Come si legge nel documento, per il territorio della Garfagnana l'olivo e l'olio hanno rappresentato da sempre non solo un supporto economico ma anche stile di vita e costume sociale.
Diverse testimonianze storiche legano la vita socio-culturale di questi territori con la coltivazione di tale specie.
Diverse norme nel tempo hanno regolamentato la produzione e la commercializzazione dell'olio di oliva, fin dal 1000-1200.
Tra i diversi documenti vi è la carta del 1241 (archivio di Stato) che stabilisce che la vendita di 22 libbre di olio doveva ridursi a 15 se la qualità delle olive non fosse stata produttiva di un frutto annuale; il restante quantitativo sarebbe stato pagato poi l'anno dopo.
La tipicità dell'olio della valle e le qualità organolettiche divennero evidenti con il passare del tempo e l'introduzione dell'Offizio sopra l'olio del 1594, con il quale si regolamentavano le licenze d'esportazione di ogni olio a secondo del fruttato dei raccolti stabilendo persino il prezzo al minuto, era un modo di disciplinare il mercato
L’olivo coltivato o domestico deriva dall’olivo selvatico o oleastro che cresce nei luoghi rupestri, isolato o in forma boschiva, e dai cui minuscoli frutti si trae un olio amaro il cui uso è, però, sempre stato limitato.
La patria di origine dell’olivo va con ogni probabilità ricercata in Asia Minore: infatti, mentre in sanscrito non esiste la parola olivo e gli Assiri ed i Babilonesi, che evidentemente ignoravano questa pianta e i suoi frutti, usavano solo olio di sesamo, l’olivo era viceversa conosciuto da popoli semitici come gli Armeni e gli Egiziani.
La trasformazione dell’oleaster in olivo domestico pare sia stata opera di popolazioni della Siria.
Nell’Odissea, troviamo scritto che Ulisse aveva intagliato il suo letto nuziale in un enorme tronco di olivo.
Per quanto riguarda l’Italia, è importante sottolineare che la presenza di noccioli di oliva in contesti archeologici e documentata fino al Mesolitico.
Tali attestazioni non significano necessariamente che già in epoca preistorica l’olivo venisse coltivato, anche perché all’esame dei noccioli non è possibile stabilire se si trattasse di olivastri oppure di olivi domestici.
Sono comunque evidenze significative, soprattutto se inquadrate nel più generale panorama archeologico e vegetazionale della penisola italiana, che fanno ragionevolmente presumere un precoce riferimento all’olivo coltivato.
Certamente il passaggio da una fase di semplice conoscenza della pianta a quella del suo sfruttamento agricolo avrà richiesto un lungo periodo, ciò nonostante, quanto esposto sembra sufficiente per sollevare almeno qualche perplessità sulle teorie che sostengono che l’olivo sia stato introdotto in Italia dai primi coloni greci; pur senza dimenticare che dal greco derivano sia la parola olivo (elaìa), sia il termine etrusco "amurca" che, nella sua forma greca amòrghe, indica quel liquido amaro ottenuto dalla prima spremitura delle olive, che veniva scartato ed utilizzato come concime, nella concia delle pelli e nell’essiccazione del legno.
Le evidenze linguistiche, letterarie ed archeologiche permettono di affermare che, già fra
l’VIII e il VII sec. a.C. non solo la coltivazione dell’olivo era praticata, ma esistevano colture organizzate che, grazie al clima mediterraneo, ben presto permisero la formazione di un surplus destinato agli scambi.
Per quanto riguarda l’età storica esistono anche evidenze paleobotaniche: sono da ricordare il relitto della nave del Giglio, del 600 a.C. circa, con le sue anfore estrusche piene di olive conservate e la cosiddetta “Tomba delle Olive” di Cerveteri, databile al 575-550 a.C., contenente, oltre ad un servizio di vasi bronzei per il banchetto, anche una
sorta di caldaia piena di noccioli di olive.
L’olivo per gli etruschi era pianta sacra, tanto che le sacerdotesse ne esibivano i rami durante le processioni. L’oliva dal gusto amarognolo, venne “addolcita” con tecniche che variavano dalla salamoia, all’immersione nell’acqua profumata con finocchio secco e frutti del lentisco. L'olio d'oliva, decretato prodotto “nazionale” ed esportato come il vino in tutto il Tirreno, aveva vari impieghi. Di eccellente qualità ideale come condimento per ogni cibo.Di grande quantità utile per accendere il fuoco, per alimentare le lucerne e per massaggiare i muscoli di militari ed atleti.La storia dell'olivo è profondamente legata a quella dell'umanità; nelle origini di questo prezioso albero storia e mitologia si intrecciano, fino a confondersi. La pianta dell'olivo si diffuse in tutta l'area mediterranea, dove il suo culto fu consacrato da tutte le religioni.Fin dai tempi più remoti l'olivo venne considerato un simbolo trascendente di spiritualità e sacralità. Sinonimo di fertilità e rinascita, di resistenza alle ingiurie del tempo e delle guerre, simbolo di pace e valore, l'olivo rappresentava nella mitologia, come nella religione, un elemento naturale di forza e di purificazione.E' ormai accertato che la coltivazione dell'olivo risale ad almeno 6.000 anni fa: ne fanno fede racconti tradizionali, testi religiosi e rinvenimenti archeologici.
A conferma della millenaria storia dell'olivo ricordiamo come la tradizione pone di fronte all'antica Gerusalemme il "Monte degli Ulivi", o come la bellezza di questa pianta sia cantata spesso nell' "Antico Testamento" D'altra parte che questo fosse un simbolo è chiarito anche dall'episodio della colomba che torna all'arca di Noè tenendo nel becco un rametto d'olivo..Nella tradizione cristiana, da secoli, viene usato olio d'oliva per la celebrazione di alcuni sacramenti: Cresima, ordinamento sacerdotale, Estrema Unzione.
Ed è un rametto di olivo benedetto che viene distribuito a tutti i fedeli la Domenica delle Palme, in ricordo della resurrezione e come simbolo pace.
Già Ippocrate raccomandava l’olio in casi di ulcere, e nell’antica Roma si

raccontava l'aneddoto di quel centenario che doveva la sua longevità all'uso costante di olio d'oliva. Plinio scrive: "Ci sono due liquidi che fanno molto bene al corpo umano: il vino per uso interno e l'olio per uso esterno"
Questo grande autore latino ha tracciato numerose ricette curative che utilizzano quasi tutto dell'olivo: Le foglie, per il forte potere astringente e depurativo, usate schiacciate, mischiate a olio e applicate come impacchi contro le ulcere e i mal di testa;
il decotto con miele per togliere le infiammazioni;
il succo ottimo per gli occhi arrossati, preparato schiacciando le foglie e versandovi del vino e dell'acqua piovana;
l'acqua espulsa dal tronco dell'olivo bruciato verde, ideale come cicatrizzante;
la corteccia delle radici di un olivo giovane, presa con miele per guarire le espettorazioni purulente.
Oltre che per finalità mediche l’olio è usato anche per i piaceri del corpo:
dopo il bagno alle terme per massaggiarsi la pelle;
prima degli esercizi fisici in palestra, soprattutto i lottatori e i corridori, per ungersi il corpo, riscaldare i muscoli, e per proteggersi contro gli sbalzi di temperatura.

Anatra con rape e olive
Lessare l’anatra fino a metà cottura in acqua aromatizzata con l’aneto.
Scolarla, lavarla accuratamente e metterla in un tegame di coccio con olio, garum ed erbe aromatiche, facendo continuare la cottura.
A parte, insaporire rape a fette con olive nere, da unire all’anatra.
Al fine di rendere più gustosa questa carne, si consiglia di presentarla sul piatto di portata con una salsa a base di pepe, cumino, aceto e brodo.

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